Appunti sul testo di Bernard Bruneteau che affronta un tema scottante: il genocidio, che sembra essere una specialità dell'ultimo secolo. Il volume spiega le origini ideologiche e storiche del comportamento genocidiario, che affondano in una lettura distorta delle scoperte di Darwin sulla selezione naturale, e nella violenza estrema della prima guerra mondiale. L'autore prende poi in considerazione i principali genocidi del XX secolo: quello armeno, quello sovietico nei confronti di minoranze e classi sociali, quello ebraico, quello cambogiano, quello bosniaco e quello ruandese.
Il secolo dei genocidi
di Filippo Amelotti
Appunti sul testo di Bernard Bruneteau che affronta un tema scottante: il
genocidio, che sembra essere una specialità dell'ultimo secolo. Il volume
spiega le origini ideologiche e storiche del comportamento genocidiario, che
affondano in una lettura distorta delle scoperte di Darwin sulla selezione
naturale, e nella violenza estrema della prima guerra mondiale. L'autore prende
poi in considerazione i principali genocidi del XX secolo: quello armeno, quello
sovietico nei confronti di minoranze e classi sociali, quello ebraico, quello
cambogiano, quello bosniaco e quello ruandese.
Università: Università degli studi di Genova
Facoltà: Scienze Politiche
Esame: Storia contemporanea
Docente: E. Preda
Titolo del libro: Il secolo dei genocidi
Autore del libro: Bernard Bruneteau
Editore: Il Mulino
Anno pubblicazione: 20051. XIX secolo: dominio dell'Europa imperialista
Il dominio dell’Europa imperialista del XIX secolo è passato attraverso i massacri delle popolazioni
indigene giustificati dagli scienziati dell’epoca.
Gli storici distinguono 2 tipi di perdite: quelle subite durante la guerra di conquista e quelle dovute alle
conseguenze del dominio esercitato sulle società indigene. La brutalità della conquista militare deriva dai
sistemi di guerra degli europei che tendono allo sterminio dei belligeranti avversari. Il massacro è quasi
sempre unilaterale.
A causa di una pacificazione quasi permanente, del sistema di sfruttamento della manodopera
nell’agricoltura, nella diffusione su vasta scala di malattie nuove o endogene e a causa del radicale
sovvertimento delle strutture sociali tradizionali, la prima generazione delle popolazioni colonizzate sembra
che non tenti più nemmeno di sopravvivere.
Filippo Amelotti Sezione Appunti
Il secolo dei genocidi 2. Darwin: selezione naturale e razzismo
Darwin scrisse “l’origine della specie” nel 1859 e 12 anni dopo tornò sull’argomento della selezione
naturale con “l’origine dell’Uomo”. Non nascose il suo interesse per conclusioni radicali che furono le basi
della dottrina di Herbert Spencer chiamata darwinismo sociale. Spencer riteneva che la scomparsa delle
razze inferiori colonizzate dagli europei fosse il risultato di una concorrenza spietata. L’espansione coloniale
sembra fornire molti esempi della selezione naturale delle civiltà più forti.
All’inizio del XIX di fronte ai primi segni di decadenza delle popolazioni indigene, gli europei hanno
addotto cause fisiologiche o ambientali anche per cercare di prevenire gli effetti mortali dello scontro tra le
razze. Dopo il 1850 viene progressivamente legittimato il razzismo fondato sulla teoria della selezione
naturale. La legge di conservazione delle razze conduce all’estinzione di tutte le razze inferiori e poco
sviluppate dal punto di vista intellettivo con cui gli europei si trovano in contatto. L’estinzione dei popoli
inadatti diventa il corollario del progresso.
Filippo Amelotti Sezione Appunti
Il secolo dei genocidi 3. Eugenetica
Con il termine eugenetica ci si riferisce a quella disciplina pseudoscientifica volta al perfezionamento della
specie umana attraverso lo studio, la selezione e la "promozione" dei caratteri fisici e mentali ritenuti
positivi (eugenetica positiva) e la rimozione di quelli negativi (eugenetica negativa).
Caillot dice che: quando un popolo è rimasto immutato per tanto tempo non si può più sperare di vederlo
progredire ed è condannato a morire o ad essere assorbito da una razza superiore. Il più forte mangia il più
debole.
Biologi e sociologi hanno banalizzato il razzismo da un punto di vista scientifico. Hanno naturalizzato la
società e la storia e le hanno subordinate a leggi tanto necessarie quanto quelle della natura. Questo ha
scientificizzato la sociologia e ha trasformato la politica in una sua applicazione ideale in modo da far si che
anch’essa sia conforma al progresso.
Haeckel, scienziato tedesco, ha contribuito alla diffusione dell’immaginario razzista alla fine del XIX. È il
grande volgarizzatore del darwinismo. Ha proposto una precisa classificazione delle razze umane stabilendo
una loro gerarchia in chiave evoluzionistica: dalle razze nere in fondo alla scala gerarchica sino agli indo
germani in cima. Era sostenitore di Bismarck, con convinzioni pangermanistiche e odio nei confronti del
cristianesimo. Una volta stabilita la scala gerarchica razziale dell’umanità bisognava passare alla sua
spiegazione dinamica, per chiarire, attraverso una sociologia scientifica il fenomeno in base al quale le razze
nascono e scompaiono.
Gumplowitz, professore di diritto pubblico a Graz dice che le razze sono alla base di tutti i processi sociali
in una lotta che le oppone le uno elle altre e che costituisce il motore della storia. La storia è solo un insieme
di lotte spietate in cui l’odio razziale e i tentativi di dominio collegano le diverse epoche. A differenza di
Darwin, per lui nella storia umana non è in gioco la semplice sopravvivenza del più adatto ma il dominio e
lo sfruttamento della razza più debole da parte di quella più forte: servirsi del nemico come di un mezzo per
soddisfare le proprie esigenze. La lotta storica per lui non porta al dominio definitivo di una razza più forte
delle altre ma è un processo permanente che di continuo rimette in discussione la supremazia conquistata. La
razza vinta può mescolarsi a quella dominante. La razza sociale per lui è più simile a una comunità umana
che a un entità biologica. La differenza sociale porta con sé, al pari di quella razziale, il desiderio di uccidere
da parte delle masse.
Filippo Amelotti Sezione Appunti
Il secolo dei genocidi 4. Prima guerra mondiale: distruzione assoluta del nemico
La prima guerra mondiale che raggiunge un livello di violenza senza precedenti fa capire ai contemporanei
che un certo tipo di guerra non esiste più.
Il primo aspetto rivoluzionario riguardò la concezione della guerra: il conflitto pone fin dal suo inizio il
problema della distruzione assoluta del nemico. Non bisogna solo intensificare al massimo la lotta militare
ma anche aggredire le popolazione di cui si vuole stroncare la volontà di resistenza. Numero altissimo di
vittime delle quali metà non ha sepoltura. Al consenso di questa morte di massa anonima si è spesso giunti
al piacere di dare morte. È una violenza multiforme che va dalle atrocità commesse durante le invasioni alla
durezza dell’occupazione militare. Il civile è considerato un nemico oggettivo ed è di per sé una minaccia
anche quando non compie alcuna azione.
I racconti dei rifugiati, i commenti della stampa, e i rapporti delle commissioni d’inchiesta hanno costruito
una realtà distorta basata su un nemico rappresentato come assoluto e barbaro e perciò oggetto di tutto l’odio
possibile. Questa rappresentazione del nemico che è la stessa per tutti i belligeranti arriva a essere costruita
scientificamente a partire da un abbruttimento e da una disumanizzazione del nemico che legittimano il suo
annientamento. Il nemico totale, già considerato barbaro, diventa prima semplice animale e poi animale
nocivo. La sua morte non suscita alcuna pietà. La guerra ha potuto essere interpretata in termini di lotta
razziale il cui obiettivo è distruggere la razza avversa. L’alta mortalità è dovuta anche alla creazione di una
cultura di guerra imperniata sull’odio per il nemico.
Filippo Amelotti Sezione Appunti
Il secolo dei genocidi 5. Violenza alla base del terrore di Lenin
In Germania, per l’estrema destra nazionalista, l’assassinio politico è solo l’omicidio di un parassita e se il
nemico politico definito subumano è ucciso, l’amico sostenitore è invece assassinato.
Questa violenza multiforme getta le basi del terrore istituzionalizzato da Lenin dal 1918. ma la concezione e
gli obiettivi dichiarati di questo terrore di stato derivano da quella brutalizzazione operata dalla guerra anche
sul pensiero dello stesso leader bolscevico. È proprio durante il periodo della grande Guerra che Lenin
definisce una strategia e una pratica rivoluzionaria in cui qualsiasi contestazione è destinata a risolversi
nell’ambito della guerra civile. Lenin pensa che la guerra civile del proletariato contro la borghesia sia
speculare rispetto alla guerra borghese imperialista dato che la lotta di classe trova la propria ordalia sul
fronte interno così come la lotta tra le nazioni l’aveva trovata su quello esterno. La guerra civile dei
bolscevichi portata alle estreme conseguenze non dipende solo dalle circostanze ma costituisce lo sbocco
voluto di una teoria politica nata all’ombra della guerra totale e che investiva i suoi sostenitori di una
missione fondamentale: annullare qualsiasi possibilità di resistenza della borghesia, sterminare le sue truppe.
Con i trattati di pace, i nuovi confini territoriali e i conseguenti scossoni rivoluzionari, la fine della guerra fa
emergere un fenomeno nuovo in Europa: quello dei rifugiati e degli apolidi. Un milione e mezzo di russi
bianchi, armeni, bulgari e un milione di greci abbandonano il loro paese di origine. Contemporaneamente
numerosi stati europei emanano leggi che permettono di privare del diritto di cittadinanza coloro che durante
il conflitto sono stati giudicati antinazionali. Subito dopo la guerra una moltitudine di persone non godono
più della tutela dei diritti umani. Milioni di persone dal 1919 vivono senza alcuna tutela giuridica se non
quella concessa loro dai trattati delle minoranze garantiti dalla società delle nazioni. Solo i cittadini che
costituivano il gruppo dominante all’interno di una nazione godevano dei diritti istituzionali. Le minoranze
erano soggette a una legge eccezionale internazionale sino al momento della loro totale assimilazione cioè
dell’annullamento della loro identità sociale e culturale, sempre che i governi di quegli stati riconoscessero
la validità di quella legge sul loro territorio.
Filippo Amelotti Sezione Appunti
Il secolo dei genocidi 6. Sterminio del popolo armeno a opera dei turchi
2 tipi di analisi riduttiva degli avvenimenti del 1915 anno in cui scompare metà della popolazione armena a
causa della politica di sterminio adottata dal Governo dei Giovani turchi di Enver, Tal’at e Gemal
appartenenti al comitato di unione e progresso salito al potere con la rivoluzione del 1908. il primo tipo di
analisi attribuisce questi eventi alla recrudescenza in chiave moderna di una vecchia tradizione ottomana: il
ricorso esclusivo ai massacri come strumento della politica di stato per risolvere i conflitti con le minoranze
sottomesse. Il secondo tipo li considera come l’apice di tutta una serie di atrocità commesse contro i civili
durante la grande guerra cioè come un crimine di guerra e un crimine nella guerra al tempo stesso che si
contraddistingue solo per la sua vastità.
L’eradicazione programmata degli armeni dall’altipiano anatolico, dove vivevano da millenni è stata
pianificata dall’autorità dello stato che agiva in nome di un progetto ideologico globale il quale a sua volta
stigmatizzava un gruppo definito in termini religiosi ed etnici e distrutto in quanto tale.
Filippo Amelotti Sezione Appunti
Il secolo dei genocidi 7. L'impero ottomano e le minoranze
L’impero ottomano era perennemente in conflitto con le sue minoranze macedone, greca, serba, albanese o
armena. Questi conflitti furono affrontati in termini di diritto internazionale con il trattato di Berlino del
1878 che poneva fine alla guerra russo-turca e che inserì la situazione degli armeni tra le preoccupazioni
della diplomazia internazionale.
La questione armena è innanzitutto un problema regionale le cui origini risalgono al 1840-60, quando le
province orientali dell’impero, dove c’è il 70% dei 2 milioni di armeni ottomani entrano in una fase di
anarchia amministrativa. Le cause sono molte: i notabili rifiutano la centralizzazione iniziata durante il
Tanzimat (periodo tra il 1839 e 76 quando furono intraprese riforme liberali e di modernizzazione finalizzate
ad arrestare il declino dell’impero), il potere illimitato dei capi delle tribù curde, la maggiore importanza dei
capi e degli ordini religiosi, l’afflusso di 3 milioni di rifugiati musulmani a causa della crisi dei Balcani e del
conflitto con la Russia. Il risultato è un deterioramento delle condizioni di vita degli armeni. L’ostilità alla
centralizzazione di Costantinopoli si traduce nella mancata osservanza dei rescritti imperiali finalizzata a
promuovere l’uguaglianza giuridica tra musulmani e non. Con l’autonomia dei distretti curdi viene
introdotto il sistema della doppia imposizione fiscale. L’insediamento di rifugiati musulmani in condizioni
di miseria avviene in un clima di risentimento generale nei confronti dei contadini cristiani proprietari di
terre. Le autorità religiose strumentalizzano questa intolleranza diffusa reclamando l’espropriazione delle
terre armene. Quando Abdul-Hamid sale al trono nel 1876, 20 anni di minacce e soprusi hanno gia
indebolito la comunità armena.
Filippo Amelotti Sezione Appunti
Il secolo dei genocidi 8. Abdul Hamid: la cultura del disprezzo del miscredente
Rompendo con l’ottomanismo del Tanzimat, Abul-Hamid fece dell’islamismo l’ideologia ufficiale per
rafforzare i legami tra il centro politico e l’oriente arabo e promuovere un sentimento unitario in un periodo
in cui le sconfitte militari e la penetrazione economica degli europei causavano un sempre maggiore
indebolimento della sovranità imperiale. Si affermava la supremazia musulmana nei territori dell’impero e la
minoranza non musulmana non deve oltrepassare i limiti che le sono imposti dalla condizione di sudditanza.
Veniva così legittimata la cultura per il disprezzo del Kaliv (miscredente). Ciò permetteva al potere centrale
di accattivarsi il favore dei notabili locali contrari ai progetti dell’ottomanismo del periodo precedente.
Infine si giunse ad attribuire funzioni militari e amministrative ai capi delle tribù curde incaricati di
mantenere l’ordine ai confini orientali dell’impero. Questo contesto politico deteriorava sempre più le
condizioni di vita degli armeni e rendeva possibile lì insorgere di una violenza di massa negli anni 90 del
800.
I massacri del 1894-96 sono compiuti perché l’intervento delle potenze firmatarie del trattato di Berlino si
rivela un fallimento. La cooperazione degli stati europei sulla questione arena di imperialismo è paralizzata
a causa della diffidenza e del sospetto che essi nutrono nei confronti dei rispettivi obiettivi politici e delle
rivalità dovute ai loro enormi investimenti economici nell’impero. Nacquero allora i primi partiti politici
armeni: il partito socialdemocratico e la federazione rivoluzionaria armena. Sono l’embrione di un sistema
di autodifesa ma contribuiscono a far precipitare gli avvenimenti dato che i turchi cercano una
giustificazione alla loro politica repressiva nei confronti dei traditori.
Il governo di Abdul-Hamid escogitò una soluzione modello: massacrare i contadini armeni della regione
montuosa del Sasun nel 1894 che rifiutavano la duplice imposizione fiscale dello stato e dei feudatari curdi.
Poi ci furono le stragi di Costantinopoli e Trebisonda. Queste azioni punitive provocarono un fenomeno di
reazione a catena con centinaia di piccoli massacri locali in tutte le sei province orientali. Le atrocità si
conclusero nel 1896: nella regione di Van 350 villaggi armeni spariscono dalle carte geografiche. Le chiese
vengono distrutte e molte trasformate in moschee e migliaia di armeni sono costretti a convertirsi all’Islam.
Bisogna considerare 3 elementi:
1. il senso di impunità che alimenta la logica della violenza poiché la progressiva escalation dei massacri è la
conseguenza dell’inerzia delle potenze di fronte alla strage del Sasun e ciò costituirebbe il fattore dominante
della genesi di questa cultura omicida.
2. l’esasperare deliberatamente una situazione di crisi gia esistente: la provocazione scatena la resistenza
armata da parte di una comunità esasperata fornendo così il pretesto per passare a un attacco ancora più
violento.
3. la dinamica del ciclo dei massacri si regge della strumentalizzazione della religione: il governo ottomano
descrive sempre gli armeni come i nemici dei musulmani accentuando le divisioni religiose rispetto ad altri
gruppi etnici locali musulmani come i curdi o i circassi. La politica dei massacri diventa un legittimo dovere
religioso.
Filippo Amelotti Sezione Appunti
Il secolo dei genocidi 9. Dal massacro degli armeni allo sterminio: i Giovani Turchi
Il processo di crescita esponenziale dei massacri è avviato. Per raggiungere l’obiettivo dello sterminio
manca un’ideologia globalizzante che sostituisca il semplice concetto del dovere islamico. Manca
l’intenzione di far scomparire una comunità. Manca il coordinamento delle operazioni a livello centrale che
sino ad allora sono state invece affidate alle autorità locali. Manca l’organizzazione del massacro che è stato
lasciato in balia della violenza collettiva del popolo. Mancano il pretesto e l’occasione per decidere di
perpetrare il genocidio. I Giovani Turchi creeranno tutte queste condizioni.
A partire dal 1915, 3 mesi dopo la sconfitta contro i russi, vengono condotte operazioni nei riguardi della
popolazione armena per garantire ciò che il governo di Istanbul definisce ristabilimento dell’ordine nella
zona di guerra con misure militari rese necessarie dalla convivenza con il nemico.
Una delle particolarità del genocidio del 1915 è di essere perpetrato sotto gli occhi delle comunità
internazionali: osservatori neutrali (americani, svizzeri, danesi e svedesi) o funzionari civili e militari
tedeschi e austriaci in servizio in Turchia. Questi rapporti permettono alle associazioni umanitarie che
prestano soccorso ai rifugiati sia alla stampa di far conoscere al mondo che non è in corso un solo
trasferimento della popolazione ma un omicidio di massa esteso al paese intero. Questi documenti (testi
diplomatici e testimonianze) per prima cosa ci insegnano che le autorità turche hanno preparato le grandi
operazioni di deportazione. Infatti dopo un ordine del ministero dell’interno vennero arrestati il 24 aprile del
1915 tutti i notabili, gli intellettuali e i maggiori esponenti della comunità armena accusati di essere ostili
allo stato e inclini al tradimento. Quindi una comunità senza protezione e privata della sua elites veniva
disarmata e lasciata in balia di un potere che poteva ormai portare a termine il piano di deportazione della
popolazione rimanente. Vennero separati uomini e donne e quindi dissolti e distrutti i legami familiari cioè
la linfa vitale del popolo armeno.
La legge temporanea di deportazione servì a dare una parvenza di legalità a questa operazione. Con essa si
autorizzano i comandanti dell’esercito alla deportazione. La legge autorizza anche la liquidazione dei beni
dei singoli individui affidando ad alcun commissioni il compito di disporne la vendita. Le somme ottenute
sono lasciate in deposito alle casse del ministero delle finanze a nome dei loro proprietari. Ma i proprietari
non tornarono mai dal trasferimento. La deportazione equivale all’annientamento e si svolge in 2 fasi:
1. la deportazione vera e propria con i massacri che l’accompagnano
2. il successivo internamento dei superstiti nei campi di concentramento in Siria e Mesopotamia.
Filippo Amelotti Sezione Appunti
Il secolo dei genocidi